15 October 2007, Ermes Rosina, www.allaboutjazz.com
Review (it)
Tra musica e teatro: i nuovi spettacoli di Goebbels e Aperghis
La Svizzera ha ospitato nelle settimane scorse due spettacoli di grande interesse sul rapporto fra suono e scena, rispettivamente di Heiner Goebbels e Georges Aperghis, artisti accomunati dalla ricerca di nuove connessioni tra musica e teatro, pur muovendo da prospettive - e approdando a esiti - piuttosto differenti. Al centro di entrambi i lavori, sia pure in maniera diversa, è la poesia che scaturisce da oggetti, automi e meccanismi animati da una propria, misteriosa, entelechia: all’occhio e all’ascolto è affidato il compito di stabilire associazioni tra simboli e tracciare percorsi di senso. Heiner Goebbels - Stifters Dinge Théâtre Vidy - Losanna - 21 settembre 2007 Lo spazio teatrale di Losanna, suggestivamente affacciato sul Lago Lemano e ben noto per l’attenzione riservata alla creatività contemporanea, produce ed ospita con una ventina di repliche (tutte esaurite!) la prima assoluta di “Stifters Dinge”, nuovo lavoro del compositore/regista tedesco, proseguendo una collaborazione molto proficua, che ha già fruttato opere di altissimo livello come “Hashirigaki” e “Eraritjaritjaka” (per leggerne la recensione su AAJ clicca qui). L’ultima fatica di Goebbels si ispira alla figura del boemo Adalbert Stifter, ma non c’è attore in scena a declamare o a recitare alcunché: il testo diventa scena, e quest’ultima, a sua volta, si fa, in un certo senso, “attrice”. “Il mio prossimo lavoro sarà fatto solo con musica e macchine. Ho bisogno, in modo radicale, solo di quello che è necessario all’arte” : questa affermazione (tratta dall’intervista pubblicata sul n. 15 di Teatro Pubblico) anticipava efficacemente l’intento sotteso a “Stifters Dinge”, già implicito sia nel titolo definitivo dell’opera, sia in quello provvisorio, “The Pianopiece”. I fatti corrispondono alla volontà dichiarata: niente drammatizzazione, nessuna “narrazione”, non c’è il carismatico André Wilms, né le tre protagoniste di “Hashirigaki”; sullo sfondo intravediamo soltanto un rinsecchito albero beckettiano, cinque pianoforti ridotti a corde e tasti, un tubo per la diffusione del fumo, un compressore, e poco altro. Uniche presenze umane - ancillari rispetto agli sviluppi successivi - sono due componenti dello staff del teatro: si limitano ad aprire alcuni contenitori d’acqua e a riempire con essa tre vasche, incubatrici di ammalianti invenzioni. Ecco, quindi, avviarsi l’anti-dramma, condotto da personaggi sui generis. La luce, via via più intensa, viene elegantemente virata in varie tonalità, intrecciando geometriche trame, tanto semplici quanto evocative, con l’acqua e alcuni schermi trasparenti che scorrono verticalmente. Una voce deprivata di qualsiasi corporeità - volto o gesto - introduce il racconto stifteriano (tratto dalla terza versione della “Cartella del mio bisnonno”), tanto più inquietante ed enigmatico quanto più si infittiscono i particolari riguardanti un viaggio attraverso una landa ghiacciata; in piena autonomia rispetto al testo, opera l’elemento sonoro: un braccio meccanico pizzica le corde di un pianoforte dapprima sommessamente, poi con una vivacità ritmica che presto contagia gli altri strumenti. Si deve all’intervento di Klaus Gruenberg, Hubert Machnik, Willi Bopp e Thierry Kaltenrieder (addetti rispettivamente alla scenografia, alla programmazione, al suono e alla robotica) la riuscita dell’interazione fra i molteplici ingredienti dello spettacolo, in cui non è difficile rinvenire riferimenti al piano meccanico di Conlon Nancarrow, alle sculture sonore di Jean Tinguely o ai lavori di Peter Fischli e David Weiss. Per quanto molteplici siano i richiami e le suggestioni, siamo ben distanti dal collage citazionista: ciò che interessa a Goebbels è la pregnanza semantica inscritta nella materia, nelle macchine teatrali, nelle luci: tutti elementi portatori, in quanto tali, di una poesia oggettiva e antiromantica - nella misura in cui manca la diretta espressione dell’emozione personale di un autore/demiurgo - di cui Stifter era stato precursore. Partendo da queste premesse comprendiamo il ruolo affidato - senza abiti di scena né “trucchi” di alcun tipo - alle altre “voci” coinvolte in questa affascinante eterofonia, siano esse portatrici di parole (come le formule di scongiuro indirizzate ai venti di sud est dai navigatori della Papuasia, gli onomatopeici canti degli indiani di Colombia, un’allucinata lettura borroughsiana, una disincantata dichiarazione di Lévi Strass), di suoni (il concerto italiano in fa maggiore di Bach, la microtonalità via via più incalzante dei pianoforti automatizzati) o di immagini (come la splendida “Caccia Notturna” di Paolo Uccello, di cui vengono isolati e ingranditi alcuni particolari, con un’accuratezza lenta e ricercata, memore del Tarkovskij di Andrej Rublev). La “scena” perde dunque - anzi non assume mai - valenza decorativa o altrimenti strumentale rispetto all’azione: a mano a mano che ci si avvia verso la conclusione (che non sveleremo, a beneficio di chi intendesse assistere allo spettacolo, che con ogni probabilità vedremo anche in Italia, essendo coprodotto, tra gli altri, dal Teatro Stabile di Torino), essa crea uno spazio lirico di trasfigurazione della realtà, sino a diventare un mondo animato da principi e forme proprie.
on: Stifters Dinge (Music Theatre)